Luca Colomban, architetto, 38 anni di Trieste si è laureato allo Iuav di Venezia nel 2004. In questi dieci anni ha lavorato in Italia e Spagna come architetto e paesaggista ma ormai da qualche anno si sta affannando per cercare strade alternative alla professione. Oggi la sua idea è "fare il giardiniere", specializzato si intende. Ma anche in questo campo le porte sono chiuse: "precedenza agli immigrati - riporta Colomban - che lavorano molto, chiedono poco e non danno problemi". Colomban è tra le migliaia di professionisti che ha partecipato al concorso per il Catasto il 25 novembre scorso e ha inviato a PPAN la sua riflessione una volta concluso il test.
I portelloni di evacuazione si sono spalancati in elegante sincronia, sollevandosi come negli stalli di un allevamento di bovini. Un fiume di laureati hanno rapidamente svuotato l'enorme aula della Fiera di Roma diluendosi sull'antistante piazzale, zaini e borsoni sulla spalla, non per conquistare l'inner circle del concerto degli Stones ma in corsa contro il tempo e non perdere l'ultimo treno di rientro verso case sparse su e giù per lo stivale, isole comprese. Su quei treni o aerei che ci riportano a casa ci carichiamo tutti i dubbi su quelle 50 risposte da trovare in 40 rapidissimi minuti: chi in maniera più intima e chi discutendone per trovare conforto alle vacillanti certezze di aver fatto bene.
Eravamo circa 30.000 iscritti, architetti ed ingegneri riuniti in un sabba (le classiche riunioni delle streghe) con al centro 140-contratti-a-tempo-indeterminato all'Agenzia delle Entrate - insomma al Catasto – invece che spiriti e pentoloni con le pozioni. Un autentico esodo scaglionato in 10 sessioni che per 4 giorni ha riempito il Padiglione 1 alla Fiera di Roma dove si è svolta la prima prova con un test di logica e cultura da settimana enigmistica a livelli spinti. Una specie di chiamata alle armi obbligata per tutti coloro che si sono impantanati grazie ad una congiuntura che è più culturale che economia, neolaureati e vecchie volpi da studio tecnico provenienti da ogni direzione mettendo da parte quella innata ritrosia per la figura dell'impiegato del catasto che accompagna gli architetti dal primo giorno di università, ma abbassando anche un po' il livello di amor proprio per sedersi su uno di quei 3000 banchetti da scuola media nell'hangar illuminato da una luce che grida vendetta per tutti i feticisti dell'illuminotecnica. Perché in fin dei conti e fuori da ogni romanticismo, questa era sopratutto una riffa per trovare lavoro, non per vincere straordinari premi o partecipare a qualche talent show, una scena cui purtroppo ci stiamo abituando in un paese in pieno decadimento.
Appena sceso alla stazione Roma Fiera ho pensato quanti, come me, si domandassero che ci facevano lì, cosa avessero a che fare con quel rituale collettivo che sembrava una frustrante rimpatriata scolastica senza pizza. Non è snobismo il mio, sono gli strascichi di una crisi di identità che dura da parecchio tempo e mi fa prendere le distanze dalla professione e dai colleghi, perché non mi riconosco in quello che faccio e nutro pure qualche dubbio in ciò che sono diventato. Ma nonostante tutto sono contento di essere venuto fin qui, di essermi impulsivamente iscritto chissà quando, in uno di quei pomeriggi in cui si gira sulla rete alla caccia disperata ricerca di qualche spiraglio, di essermene dimenticato per mesi sorvolando sui rinvii e forum dove i professionisti dei concorsi pubblici impazzivano nell'attesa scambiandosi consigli anche sulle migliori soluzioni farmaceutiche per governare l'ansia da esame. Infine di essermi preso qualche giorno per tornare a Roma a vedere gli amici e una città che da sola, in tutte le sue violente stratificazioni, potrebbe rispondere alla domanda del perché uno dovrebbe iscriversi ad un corso di architettura. Per me è stata un'altalena densa di sensazioni, ho visto e intuito tante storie nei volti di chi aspettava di poter entrare e confrontarsi con l'ignoto test, forse ho un'immaginazione troppo fervida e ci ho solo proiettato le mie emozioni, forse ho mal interpretato le parole di quei momenti tesi, ma a me è sembrato tutto piuttosto chiaro.
C'erano i concorsisti seriali, c'erano i disoccupati, c'erano molti mal occupati, emigranti di ritorno, emigrati pentiti, cacciatori di posto fisso e molti che come ci han provato perché di questi tempi non si scarta nessuna ipotesi, c'erano figli-morose-cani di sostegno, gruppi di ex-compagni di facoltà riuniti per una gita fuori tempo massimo che sono scesi dal pullman, ma questa volta invece che trovarsi davanti alla Unitè de Habitation di Le Corbusier si son trovati nel piazzale deserto della Fiera. C'erano carichi di illusioni e di disillusione, molta curiosità per una prova che come una leggenda nessuno sapeva quanto durasse o quanto difficile fosse, c'era voglia di riderci su ma anche tanti visi tirati e qualche occhio spento di chi si sentiva all'ultima spiaggia; solitari arrampicati sulle scale d'acciaio o sdraiati nei fori centrali dei piloni in cemento che cercavano un po' di isolamento, gruppetti seduti sul marciapiede che chiacchieravano con toni più distesi, gli altri ammassati in piedi davanti alle porte.
Un pomeriggio con il cielo che rispecchiava il grigio delle strutture inanimate della Fiera, eccezion fatta per questa composta folla di laureati che cercava di ingannare il tempo ripetendo all'ossessione i test di prova, sprofondando negli schermi degli smartphones o guardandosi attorno per trovare conforto negli sguardi sommessi di tanti colleghi.
Aggirando il padiglione 1 si poteva sbirciare il surreale schieramento di banchetti allineati in attesa dei candidati che ricordava una di quelle fabbriche cinesi dove si assembla qualcuno dei prodotti di massa che troviamo nei nostri negozi, facendomi balenare l'assurdo sospetto che una volta seduti ci avrebbero dotato non della busta sigillata d'esame ma di qualche scheda e componente da trasformare in gadget elettronico. Difronte al viale dove si raggruppavano i candidati, il padiglione 2 completamente vuoto, con la luce fioca del bar incapace di illuminarlo tutto e una coda al bagno da grande evento. Più di qualcuno si aggirava con gli occhi al cielo per guardare quella struttura imponente e solitaria, un piccolo monumento temporaneo ai tanti tavoli da disegno e file di AutoCAD vuoti davanti ai quali molti di noi si son trovati in questi ultimi anni, uno spazio silenzioso e solitario dove meditare sulle incongruenze di una professione che forse da nessuna parte come in Italia appare così affollata e così mal frequentata.
Poi il test, un lampo rispetto le ore di attesa e i mesi di aspettative, la lunga trafila burocratica del riconoscimento e delle vidimazioni, le istruzioni e gli steward ragazzini – chissà se qualcuno di loro dopo questa esperienza penserà di iscriversi ad architettura o ingegneria - che ci hanno accompagnato alla nostra postazione. In 40' non si ha tempo per il ragionamento complesso o critico, o forse qualcuno più sveglio di me ce l'avrà, ma l'impressione è che la rapidità sia la dote più importante per superare la prova. E poi si sono aperti i portelloni. La fuga è durata pochi minuti, poi i dubbi e le illusioni si sono diluiti ancora su tutto il territorio nazionale, riportandoci alle miserie della nostra quotidianità professionale.
Io invece ritorno con qualche pensiero in più. Non è un segreto che molti, non tutti, studenti di architettura scelgano questo percorso di formazione inseguendo una passione. Non è e non deve essere un mestiere come un altro, serve a costruire lo spazio in cui viviamo, lavoriamo, cresciamo o ci congediamo, serve a tutti noi, per farci star meglio, per farci sognare o anche semplicemente per svolgere la nostra vita con maggiore comodità. Ne ho conosciuti tanti negli anni di università, di lavoro, di emigrazione che erano disposti a qualche sacrificio pur di alimentare questa passione, ritrovandosi a preparare concorsi dopo una giornata di lavoro in qualche ufficio, lavorando giorni e notti in studi prestigiosi per pochi soldi pur di fare esperienza, battendosi contro una burocrazia avvilente e clienti indisponenti. Sopratutto ricordo lo sguardo curioso e vivo di molti studenti in giro per il mondo a guardarsi qualche capolavoro studiato ed immaginato, perdendo ore ad aggirarsi dentro e fuori e toccando ogni suo materiale per la disperazione dei compagni di viaggio costretti a sopportare queste manie da “nerd del mattone”. Sono proprio questi sguardi quelli che mi hanno impressionato fuori dal padiglione 1, che ho intravisto dietro una patina di malinconia e rassegnazione, sopratutto nei meno giovani, che di problemi da affrontare ne hanno ben altri che la passione per il proprio mestiere. Gli stessi sguardi di molti altri ragazzi costretti alla resa o ad abbandonare il Belpaese non solo perché gli preclude il futuro, ma perché gli ruba la loro passione. Era il sano piacere per far bene il proprio lavoro ad essere tradito in una fila lunga 30000 persone, una infilata di bandiere bianche che si mescolavano a chi aveva solo la rispettabile intenzione di trovare un'occupazione dignitosa.
In Italia siamo un esercito di professionisti che non ha eguale nel mondo, l'università dei grandi numeri ha prodotto aberrazioni folli come l'Ordine degli Architetti di Roma che vanta più iscritti dell'intera Francia; proprio in questi giorni si ribadisce in termini perentori che stiamo raggiungendo una media di introiti vicina alla soglia della povertà. Eppure il mio pensiero va sopratutto a queste persone - in qualche modo me ne sento parte – che prima ancora del conto in banca si rammaricano di vedersi preclusa la propria amata professione.
La mattina stessa dell'esame, tralasciando inutili ripassi dell'ultimo minuto ai sillogismi e le sequenze numeriche, sono ritornato per una passeggiata alla Garbatella, dopo parecchi anni dalla prima visita. Ancora una volta mi sono stupito davanti a questo paesaggio insolito e affascinante, muri e giardini intrisi di una storia popolare, un esempio mirabile di ciò che l'architetto può fare con bravura, passione e un po' di fortuna. Niente archistar o icone dell'architettura contemporanea ma uno dei primi quartieri di edilizia popolare, un po' sgarrupato ma incredibilmente vivo. E' stata una fortuna e una boccata d'aria, è stato come appiccicare un post-it davanti agli occhi per ricordare perché ho deciso di provare questa professione e perché mi son sentito così fuori luogo su quel banchetto alla Fiera. Sul treno che mi riconduce a casa io ci porto pure questo. Poi da domani si ritornerà a testa bassa a cercare un lavoro qualunque esso sia, sapendo che per quanto la si ricacci indietro, la passione per questo mestiere non potrà mai essere del tutto sopita.
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