Tanti i linguaggi dell’abitare umano, idiomi nati sovvertendo le convenzioni sociali, architettoniche ed economiche. Diverse le tecniche costruttive e abitative, tutte però con uno sguardo alle categorie più fragili e alle generazioni future. In una parola: housing sociale. Ma quando si parla di edilizia popolare una domanda è d’obbligo: dove e come produrre alloggi a basso costo? Quale ruolo nella riqualificazione e rigenerazione dei luoghi? Quale il rapporto all’interno del sistema-città?
Secondo Massimo Bricocoli, professore di tecnica e pianificazione urbanistica al Dastu del Politecnico di Milano bisogna mettere l’accento sul prezzo degli alloggi, parlare di edilizia sociale non ha senso senza costi accessibili. Il docente, che ha partecipato alla serata di celebrazione dei vincitori del Premio Europeo di Architettura Matilde Baffa Ugo Rivolta, bandito dall’Ordine degli Architetti di Milano con cadenza biennale e rivolto alle migliori realizzazioni europee di edilizia sociale, ha affrontato i nodi dell’edilizia sociale. La competizione milanese, dopo 14 anni, 269 progetti e 19 Paesi coinvolti, è ormai un punto di riferimento per il social housing a livello internazionale. Un tema attraente e attuale che oggi è al centro del dibattitto pubblico e che va a braccetto con ipotesi innovative di welfare pubblico e con le politiche sociali. «Oggi la questione più urgente non sono solo i diritti, ma la povertà», spiega Gabriele Rabaiotti assessore alle Politiche sociali e abitative del Comune di Milano nel suo intervento di lunedì nell’Incontro di “Fare Milano”. «Le città soffrono, sono ferite. Ci sono aree dense di abitanti, qui a Milano tutte le zone che stanno oltre la circonvallazione hanno molte risorse, ma anche molte criticità. Nei nostri quartieri e in quelli di Aler. Il filtro che utilizziamo per l’assegnazione delle case popolari, come da regolamento regionale, produce una inevitabile concentrazione delle povertà. Questi quartieri costituiscono il 10 per cento della città costruita.
Bisogna assegnare la casa, ma bisogna assolutamente dare la possibilità di crescita, servizi, infrastruttura sociale, culturale. Questo bisogna fare a pari passo con la soluzione dell’emergenza abitativa», racconta Rabaiotti. «Un sistema di welfare che costruisca alleanze, sia con realtà economiche che quelle sociali. In una città dove, per anni il modello di welfare che ha funzionato è stato quello improntato sul modello familiaristico, basato sull’aiuto familiare, c’è bisogno oggi della costruzione di reti abitative e di un sistema sociale, senza rete, l’alloggio non basta». Il bisogno di Milano, lo chiama l’assessore. Un bisogno che si “cura” solo se intorno c’è una rete. «Se noi guardiamo al movimento della popolazione, alla crescita costante della popolazione a Milano città – racconta Bricocoli – si nota che gli abitanti sono arrivati a più 100mila (+7,8 per cento). Al 2030 sono attesi 80mila abitanti nuovi. Nuclei familiari molto piccoli. Il 45% ha un solo componente, il 27% due componenti, ma sono in aumento i nuclei con più di 4 persone. Ma alla luce di questo è una città che cresce con redditi polarizzati, circa il 60% della popolazione ha un reddito inferiore ai 25mila euro l’anno che in una grande città sono una debolezza». Questo è il motivo per cui i luoghi dove sorgono gli alloggi è tema centrale. «Noi sappiamo che gli alloggi sociali stanno sorgendo in zone decentrate, la casa accessibile la troviamo fuori città, con costi individuali molto elevati», sottolinea il docente del Politecnico. Quali sono le condizioni reali di accesso alla casa? «Oltre 470mila lavoratori risiedono e lavorano a Milano, ma oltre 450mila fuori Milano.
A Milano anche in periferia gli alloggi non sarebbero accessibili ai redditi medi per il 60% della popolazione. Il social housing dovrebbe: presidiare il rischio di ulteriore polarizzazione; creare delle condizioni di affordability al di sotto delle condizioni di mercato (la casa in affitto da sola non basta); svilupparsi entro una logica di sistema (cooperative, no profit e for profit)». Per questo l’edilizia residenziale pubblica, è una componente fondamentale dell’housing sociale. Bisogna interrogarsi sulla capacità di produrre progetti interessanti e che dialogano con il contesto cittadino. Serve, perché l’housing sociale funzioni, una strategia politica, una visione, un disegno generale, per dare un senso a questa collezione ricca, ma mal organizzata. Le potenzialità non mancano, serve una linea progettuale forte nel pubblico, ma anche nel privato. Servono dinamiche di scambio. Scambio tra quartieri, chi vive nell’housing sociale non deve sentirsi isolato, impermeabile, manca questa connessione ed è questa connessione che bisogna praticare, avviare, per un’edilizia popolare rivoluzionaria. E anche per questo che servono un'urbanistica e un'architettura che sappiano farsi interpreti di una tensione civile e comunitaria. Un giusto equilibrio fra realismo e utopia del progetto per prendere in mano le sorti della città, la sfida a superare modelli consolidati.
In copertina: immagine tratta da villaggiobarona.it
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