C’è chi ha realizzato una piazza pubblica sopraelevata, chi una distesa erbosa che permea gli spazi interni ed esterni del padiglione, chi ha indagato il tema delle carceri e chi invece ha scelto di raccontare con mappe, modelli e disegni l'uso quotidiano degli spazi. Freespace il tema della 16. Mostra Internazionale di Architettura, diretta da Yvonne Farrell e Shelley McNamara, è stato interpretato e sviluppato in modi molto diversi dai 61 padiglioni nazionali presenti alla Biennale del 2018. Ecco che l’esposizione che verrà inaugurata il 26 maggio si preannuncia come un viaggio affascinante alla scoperta del concetto di “spazio libero” nei diversi Paesi del mondo, in un momento storico in cui la libertà di spostarsi, e di conseguenza di vivere diversi luoghi, è messa alla prova da numerose sfide, da quelle ambientali fino a quelle politiche.
Mario Cucinella, curatore del Padiglione Italia, porta a Venezia un’esposizione che si concentra sui territori interni del Bel Paese. L’allestimento di Arcipelago Italia, questo il titolo del padiglione promosso dalla DGAAP del Mibact, è stato immaginato come un viaggio lungo la penisola, con un centinaio di tappe suggerite da progetti di architettura di qualità, individuati attraverso una call. Un itinerario che propone una riflessione su temi di attualità come le periferie, il post terremoto, le aree dismesse e la mobilità. Cucinella, insieme a un collettivo interdisciplinare, ha individuato inoltre cinque aree strategiche per il rilancio dei territori, per le quali sono stati sviluppati altrettanti progetti sperimentali, architetture ibride, che potranno diventare strumento di discussione e ausilio per comunità e amministratori locali.
Dall’arcipelago alla singola isola. Island è infatti il nome del padiglione della Gran Bretagna curato dallo studio Caruso St John Architects in collaborazione con l’artista Marcus Taylor. Una piazza pubblica sopraelevata, sul tetto del padiglione, che riuscirà a offrire un punto di vista unico sulla laguna. Un’isola “sospesa” sopra un mondo sommerso, che, come hanno spiegato gli stessi curatori, intende suggerire due modalità di vivere lo spazio “Island”, che da una parte può essere luogo di rifugio e dall’altra di isolamento e che vuole richiamare trasversalmente diversi temi d’attualità, dalla Brexit ai cambiamenti climatici.
Intende invece proporre spunti di riflessione sulla crescente ondata di movimenti nazionalisti, Unbuilding Walls, il padiglione tedesco, curato dal gruppo GRAFT insieme a Marianne Birthler, in un anno, il 2018, che per il Paese rappresenta una sorta di “anniversario parallelo”. È infatti il 28esimo anno dall'unificazione della Germania, ma 28 sono anche gli anni d’esistenza del muro di Berlino. Partendo quindi da un episodio di separazione che ha segnato per sempre la storia moderna, i professionisti tedeschi hanno deciso di portare alla Biennale un racconto che esplora numerosi esempi architettonici in grado di rappresentare i temi della divisione e dell’integrazione all’interno delle città.
Spostandoci verso oriente, Lifescapes Beyond Bigness, il padiglione degli Emirati Arabi, rivela le scene nascoste della vita quotidiana degli emiratini attraverso quattro scenari: i quartieri periferici residenziali, i centri urbani, le reti stradali e le aree naturali. Con immagini, disegni tecnici, mappe e modelli tridimensionali, l’esposizione curata dall’architetto Khaled Alawadi, intende evidenziare l’interazione tra l’ambiente urbano e il dinamismo della vita sociale informale. I racconti dettagliati delle storie personali degli abitanti dei diversi spazi, offrono un punto di vista sull'antropologia di ciascun sito di ricerca.
Si interroga sul futuro della Cina rurale Building a Future Countryside, il padiglione della Repubblica Popolare cinese, curato da Li Xiangning, noto critico di architettura e docente alla Facoltà di Architettura e Urbanistica dell’Università di Tongji. Preservare le tradizionali aree di produzione agricola è tra le sfide più grandi che il Paese si trova ad affrontare in questi anni, in un momento in cui lo sviluppo urbano galoppa di pari passo a quello economico nazionale. Il padiglione mette quindi in mostra i progetti esemplari di alcuni architetti contemporanei cinesi, che cercano di prefigurare come possa essere la “campagna del futuro”, indagando come la modernizzazione possa unirsi alla tradizione. Con un velato ricordo al tema già affrontato dal padiglione cinese per Expo Milano 2015.
No More Free Space? è la domanda-titolo del padiglione di Singapore. L’esposizione curata da Erwin Viray, Keng Hua Chong, Tomohisa Miyauchi, Yen Yen Wue e Jason Lim celebra attraverso 12 progetti, la capacità di architetti, urbanisti e city maker, di aver tradotto la ridotta disponibilità di spazi (720 chilometri quadri, con circa 5,6 milioni di abitanti) in un’occasione di sviluppo “creativo” della città, con idee che hanno consentito di sfruttare e ottimizzare al massimo il territorio. Come città-stato, Singapore è stata in grado fino ad oggi non solo di sviluppare edifici, infrastrutture, abitazioni, aree industriali e spazi ricreativi per gli attuali abitanti ma è riuscita anche a preservare delle zone libere in vista di un'ulteriore crescita economica. Aree che, come i singaporiani ben sanno, continuano a rendere attrattivo il Paese agli occhi degli investitori stranieri.
Station Russia è la mostra proposta da Semyon Mikhailovsky per il padiglione russo. Un’esposizione interamente finanziata dalla società che gestisce i trasporti russi e dedicata alle ferrovie del Paese, dalla loro nascita ad oggi. Il “Freespace” per Mikhailovsky è rappresentato dalla vastità dello spazio fisico della nazione, un territorio enorme attraversabile grazie alle linee ferroviarie. “Linee di vita” come le ha definite il curatore stesso, lungo le quali si sono sviluppate le città. Ampio spazio è dato inoltre alla storia e ai lavori dell’architetto Aleksey Shchusev, autore del progetto del Mausoleo di Lenin e creatore della stazione ferroviaria Kazansky di Mosca.
E ancora, lo studio Baracco+Wright in collaborazione con l’artista Linda Tegg è autore, per il padiglione australiano, di Repair. Una proposta che accende i fari sulla relazione architettura-ambiente, ampliando la prospettiva progettuale dall’oggetto dell’architettura al modo in cui questa opera nel suo contesto, per riscoprire il suo ruolo, di impegno diretto nella riparazione dei danni ecosistemici, sociali e culturali dei luoghi di cui fa parte. Protagonista del padiglione è l’installazione Grassland, una “distesa erbosa” composta da 10mila piante diverse, che ricopre la parte interna ed esterna del padiglione e che vuole ricordare al visitatore cosa viene perso ogni volta che si danneggia l’ecosistema.
Cosa significa essere cittadino oggi? Dimensions of Citizenship, il padiglione degli Stati Uniti, intende indagare il tema, suggerendo una riflessione su come il concetto di cittadinanza sia cambiato negli ultimi anni e di come stia continuando ad evolversi. Articolata in sette scale spaziali, dal singolo cittadino, alla nazione fino ad arrivare al cosmo, l’esposizione curata da Niall Atkinson, Ann Luie e Mimi Zeiger presenta altrettante installazioni realizzate da diversi team. Tra questi anche lo studio newyorkese Scape, che in collaborazione con l’Università di Bologna ha proposto “Ecological Citizens”, un progetto che partendo dalla Laguna di Venezia, caso esemplare di un’area ad elevato rischio ecologico, propone possibili soluzioni e strategie progettuali. Lo scopo? Dimostrare che l’architettura del paesaggio può stimolare la cittadinanza a rispondere alla sfida dei cambiamenti climatici.
Tra i temi affrontati dai paesi dell'America Latina, c'è l’esposizione di Alejandro Denes, curatore di Prison to Prison, an Intimate Story between two Architectures, per il padiglione uruguayano. Il progetto esplora la relazione tra due carceri, due edifici costruiti a poca distanza fisica l’uno dall’altro, gestiti in maniera completamente diversa. Uno dei due è di recente costruzione, è il più grande edificio costruito in Uruguay nel 2017 ed è in linea con il rigido modello gestionale tradizionale. A quest’ultimo si contrappone il cárcel pueblo, quello che il curatore indica come un paradossale “freespace”. Una prigione strutturata come un villaggio, che consente ai detenuti di essere “liberi” e autonomi in diverse attività quotidiane ma che, nonostante tutto, rimane uno spazio di detenzione.
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