Simone Gobbo, Davide De Marchi e Alberto Mottola hanno 35 anni. Sono tre architetti laureati allo Iuav di Venezia e sono loro i soci dello studio demogo fondato a Treviso nel 2007, premiati dal Consiglio Nazionale degli Architetti come ‘Giovane Talento’ dell’anno. Demogo ha appena realizzato in Belgio un municipio nato da un concorso Europan aggiudicato nel 2009 e la scorsa settimana ha firmato l’incarico per la realizzazione di un bivacco sulle Dolomiti, anche questo frutto di un concorso.
Studio in provincia ma approccio europeo. Come vi siete strutturati?
Otto anni fa abbiamo fondato lo studio consolidando i nostri percorsi di formazione profondamente influenzati dall'esperienza Erasmus. Raccogliamo ora i primi frutti, dopo aver investito per anni nella formazione guardando oltre confine e disinteressandoci ad un dibattito interno che trovavamo arido e con poche opportunità. Il concorso Europan l'abbiamo vinto dopo solo due anni di apertura del nostro ufficio, e intorno a quel progetto abbiamo costruito la nostra identità. Due di noi si sono trasferiti in Belgio, abbiamo frequentato i forum europei confrontandoci con colleghi internazionali e con questa occasione abbiamo dato una forte accelerazione al nostro lavoro.
Come è stato per gli altri giovani talenti italiani premiati dal Cnappc, da Barozzi Veiga e Scape, non si raggiunge il successo senza pazienza e determinazione. Demogo in cosa ha scelto di investire?
Abbiamo investito molto sui rapporti e sulla nostra formazione per stabilire quale fosse il progetto dello studio. Abbiamo guardato alla cultura del progetto prima che al tornaconto economico, pur consapevoli che con questa scelta ci stavamo esponendo molto in termini di rischio. Per fortuna è arrivato il successo con Europan: a cinque anni dal concorso abbiamo realizzato 10mila mq per la sede municipale di una cittadina di 40mila abitanti, integrata con servizi per un mix di attività. Abbiamo mantenuto uno studio snello: siamo noi tre soci e da poco abbiamo un collaboratore, conserviamo un approccio lento, ci serve tempo per riflettere, a discapito della velocità che richiede il nostro tempo. Tutti parlano di rapidità e di grandi volumi, noi crediamo nella dimensione autoriale del progetto: siamo riflessivi, facciamo ricerca sui singoli temi per elaborare la nostra idea di spazio contemporaneo.
Oggi in Italia come è possibile coniugare l’ambizione e la ricerca con la sostenibilità e l’operatività di uno studio professionale?
Bisogna saper coniugare le due cose prendendo tutte le occasioni che arrivano. Noi trattiamo i privati allo stesso modo dei concorsi: non facciamo differenza per le diverse commesse. Mai svilire le piccole opportunità, tutto è utile per l’allenamento, dipende da come si gestisce.
I giovani professionisti e le Università. Cos’è e che ruolo ha l’accademia per voi?
Terminati gli studi abbiamo fatto un percorso autonomo, ci siamo costruiti la nostra idea di architettura guardando altri riferimenti in Europa: siamo professionisti europei a tutti gli effetti, siamo poco legati all’idea di architettura locale. Da poco abbiamo ripreso un rapporto con l’Università riprendendo le attività di ricerca con un dottorato, riteniamo sia necessario oscillare tra l’accademia e la professione: se si opta per l’una o per l’altra separatamente si rischiano derive pericolose.
Un Paese che voi oggi considerate sia un riferimento per l’architettura?
La Svizzera, per la grande qualità del dibattito, delle realizzazioni, dei processi. Noi in Italia dobbiamo crescere ancora molto per formare un’opinione pubblica e una committenza attenta al progetto e la nostra generazione ha una grande responsabilità in questo senso.
Demogo cosa fa per far fronte a questo tema?
Gli architetti comunicano attraverso i propri progetti, bisogna restare coerenti nel tempo, perseguire con ostinazione senza cedere ad esempio ai compromessi di chi fa speculazione piuttosto che ai freni della burocrazia o ancora di chi non sperimenta e innova. L’opinione pubblica non deve banalizzare il nostro contributo, non bisogna abbandonare la possibilità di riuscire a cambiare le cose.
Quanto conta la concretezza per uno studio emergente come il vostro?
Dopo la costruzione di alcune residenze private, demogo ha inaugurato a settembre la prima grande opera all’estero. Arrivare al cantiere e seguirlo è fondamentale: troppo spesso i progettisti hanno demandato ad altri la concretezza e la nostra generazione non deve ripetere questo errore. Noi abbiamo lavorato al fianco di importanti aziende che nel nostro territorio si sono distinte per capacità tecnologiche, abbiamo attinto al loro know how nella consapevolezza che i rapporti con le imprese vanno gestiti con disciplina, mantenendo sempre al centro il progetto e la sua qualità.
Demogo imposta la propria attività sui temi della concretezza e dell’innovazione, che ruolo ha per la vostra generazione il Bim?
È una parola che rischia di essere svuotata del suo vero significato. Le questioni legate al controllo del progetto integrale sono centrali, ma vanno governate. Il nostro studio è interessato a intrecciare strumenti innovativi con quelli più tradizionali, continuiamo a fare modelli fisici in cartoncino oltre ai modelli digitali.
Il premio degli Architetti italiani arriva dopo l’inaugurazione in Belgio e la firma del contratto per il Bivacco delle Dolomiti, su quali progetti siete concentrati ora?
Dovremo sviluppare nei dettagli il progetto per il Bivacco: sarà un prototipo, un’architettura in alta quota che dovrà inserirsi nel paesaggio alpino, servirà un progetto attento dal punto di vista tecnologico, perché dovrà essere installato a 2600 metri di altezza, e costruttivo perché sarà industrializzato, costruito parzialmente in fabbrica e assemblato poi sul posto. Stiamo anche ipotizzando di realizzarlo nella piazza di Auronzo, come elemento di comunicazione e condivisione con i cittadini, per poi portalo in quota. Quindi ora ci concentreremo sul bivacco, attendendo l’esito di alcuni concorsi in Svizzera a cui abbiamo partecipato.
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