“Alcune campagne fotografiche sembrano aver creato una sorta di cortocircuito nell’architettura contemporanea, portando i professionisti a realizzare edifici che sono prima di tutto immagine e poi spazi da vivere. La fotografia dovrebbe essere in grado di restituire una descrizione oggettiva della realtà e, al contempo, rivelare nuovi aspetti del progetto attraverso la propria specificità di linguaggio e il tocco personale del professionista. Guardando gli scatti realizzati per la biblioteca di MVRDV in Cina, sembra però a mio parere che ci sia stata un'inversione di questo meccanismo: l'immagine (e non la vita) diventa obiettivo progettuale”.
Così Marco Cappelletti, fotografo classe 1987, si esprime sul ruolo della fotografia nel mondo dell'architettura, proponendo una visione che pone le basi per una riflessione sulla funzione delle immagini e su come queste possono influenzare la fase di progettazione.
Nel portfolio del giovane professionista, partner dal 2015 dello studio fotografico milanese Delfino Sisto Legnani (DSL Studio), si contano in quattro anni di attività oltre 35 collaborazioni con architetti nazionali e internazionali, da Oma, (per cui ha realizzato le immagini del Fondaco dei Tedeschi dopo il suo restauro nel 2016) agli svizzeri di Andreani Architetti fino ai portoghesi di Aires Mateus Arquitectos.
Tra gli studi italiani con cui Cappelletti ha collaborato ci sono anche Piuarch, Lopes Brenna Architetti, A+B2 Architetti, Set Architects e Maria Claudia Clemente e Francesco Isidori, fondatori dello studio romano Labics, (ospiti insieme al fotografo al museo Maxxi in occasione dell'appuntamento del 24 gennaio nel ciclo di eventi Obiettivo Architettura). Per loro Cappelletti ha realizzato le immagini de La città del sole, un complesso di oltre 17mila mq di superficie a ridosso della stazione AV di Roma Tiburtina, nato dalla trasformazione di una rimessa Atac in disuso. Fotografie che hanno fatto in poco tempo il giro del mondo, dall’Italia alla Corea del Sud e che si discostano dalle immagini che siamo abituati a vedere su siti web e riviste. “Viene infatti dato molto spazio al rapporto dell’edificio con il contesto, senza mai mettere la città in secondo piano, dimostrando - spiega il fotografo - il legame della nuova struttura con la vecchia rimessa e creando contrasti architettonici, cromatici e semantici”.
Ma come si relazionano bellezza e veridicità in uno scatto? “Amo considerare il mio lavoro un'opera di traduzione - racconta Cappelletti -. Il fotografo infatti si trova spesso in bilico tra l’ambizione di non lasciare traccia di sé e riportare quindi le cose oggettivamente e, contemporaneamente, la voglia e la necessità di esprimersi. Nella fotografia quindi è necessario raccontare un'architettura nel suo contesto bello o brutto che sia, senza dover per forza ricercare un'estetizzazione che rispetti dei canoni commerciali”.
Riguardo al concetto di “autenticità”, la scelta di fotografare un edificio prima, durante o dopo il suo utilizzo è uno degli elementi che fa la differenza nel risultato dell’immagine finale e di ciò che questa può trasmettere. “Il momento migliore varia di opera in opera, anche se mi capita spesso di fotografare strutture prima del loro taglio del nastro. Rappresentare le architetture nel momento in cui sono vissute - aggiunge il professionista - può sicuramente dare valore al progetto ma non sono convinto che la fotografia sia sempre e comunque il medium adatto per la rappresentazione del durante. Infatti, se provassi a chiedere a dieci persone qual è per loro l'utilità di avere una figura umana in una fotografia d’architettura, nove darebbero come prima risposta che è utile per avere una scala. Personalmente però non credo di voler utilizzare così le persone e penso ci siano luoghi che richiedono naturalmente una presenza umana reale, non posata. Non realizzerei, ad esempio, degli scatti degli esterni della Casa da Musica di Oma a Porto senza gli skater che la frequentano ogni giorno”.
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