A Barcellona, per una decina di giorni (fino al 27 novembre), si potrà apprezzare il nuovo look del famoso padiglione progettato dall'architetto tedesco Ludwig Mies van der Rohe nel 1929. Si tratta dell'intervento artistico dal titolo 'mies missing materiality', realizzato dalla coppia di architetti finnico-spagnola Anna and Eugeni Bach, in collaborazione con la Fundaciò Mies van der Rohe. La struttura originale è stata infatti totalmente ricoperta con una pellicola in vinile bianco, con l’obiettivo di accendere un dibattito sul ruolo che giocano i materiali nella percezione dello spazio, sul valore dell’originale e sulle superfici bianche come rappresentazione della modernità.
Una nuova immagine della modernità? L’edificio di Mies van der Rohe, progettato inizialmente per essere temporaneo, doveva rappresentare la nuova Germania, sorta dalle ceneri dell’Impero Tedesco al termine della Prima Guerra mondiale, ed era destinato ad essere smantellato al termine dell’Esposizione Universale del 1932. Demolito dopo pochi mesi dalla sua costruzione, fra il 1983 e il 1986 è stato ricostruito da alcuni architetti spagnoli, che hanno così restituito al pubblico questo luogo simbolo della breve Repubblica di Weimar e dell’architettura del Movimento Moderno.
La Fundaciò che gestisce il padiglione e i suoi spazi, da anni promuove il lavoro di artisti e progettisti innovativi di chiara fama, come ad esempio Ai Wei Wei, Enric Miralles e Andrè Jaque. Le attività, iniziate nel 1999 con una mostra delle fotografie del canadese Jeff Wall, perseguono lo scopo di suggerire nuove prospettive e stimolare un dibattito attraverso le opere esposte. Tutto ciò spiega la cornice dell’installazione di questi giorni, ispirata alle idee del noto architetto finlandese Juhani Uolevi Pallasmaa.
Alla cerimonia di apertura si è tenuta una tavola rotonda composta dagli ideatori, Anna ed Eugeni Bach, e dagli architetti Maria Langarita e Carlos Quintàns (vincitore del Leone d’Oro alla Biennale di Venezia 2016). I quattro si sono confrontati sul ruolo giocato dalla materialità nell’arte e nella progettazione architettonica, davanti ad una platea di più di 100 persone. “Vestire il padiglione Mies van der Rohe per spogliarlo della sua corporeità, della sua materialità – così hanno spiegato l’iniziativa gli ideatori del progetto -. La struttura sulla quale abbiamo realizzato l’opera è una ricostruzione, una replica così credibile e simile all’originale che è difficile ricordare la sua vera natura. Un edificio che sarebbe dovuto essere temporaneo è stato reso immortale, prima dal Movimento Moderno e poi dalla sua stessa ricostruzione”.
Perché la scelta del bianco? Il padiglione era considerato un simbolo dell’architettura moderna all’esibizione al MoMa di New York nel 1932. All’epoca, molti studiosi e progettisti, come Philip Johnson ed Henry-Russel Hitchcock, indicavano nelle superfici bianche un emblema di un nuovo stile e un modo per presentare strutture uniformi. “Rendere l’edificio bianco e omogeneo quindi – hanno concluso Anna e Eugeni Bach – significa dotarlo di una delle caratteristiche principali secondo la storiografia modernista e, allo stesso tempo, privarlo di quegli elementi che hanno contribuito a renderlo un’icona”.
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