Dopo l’esperienza della costruzione di una scuola a Zugliano in Veneto, sentita “come luogo di creazione e cura di una comunità”, lo studio Peluffo & Partners sta lavorando a Cornedo Vicentino per un vero “borgo solidale”, per famiglie che hanno figli con gravi disabilità: qui il tema dell’assistenza ospedaliera quotidiana, o dell’aiuto, collegati alla vita della famiglia di tutti giorni, all’abitazione tradizionale sono inseriti e pensati in una “sistema comunità”. È questa la sfida che la Fondazione Domani per voi - con il suo presidente Verena Sonderegger e il direttore Antonio Sambo - in collaborazione con l’Amministrazione Comunale, affrontano con un’energia unica: “esiste il parlarsi, il discutere, il progettare, che nasce – racconta l’architetto Gianluca Peluffo - da una esigenza di profonda difficoltà personale e intima, per poi diventare sogno e progettualità collettiva. Si sperimenterà la compresenza di famiglia e assistenza, di lavoro, riabilitazione, e commercio. Le residenze sono articolate per diverse tipologie pensate per i differenti livelli di necessità di assistenza, gestita a livello cooperativo, unendo centro diurno e comunità-alloggio, residenze a bassa protezione, laboratori produttivi e attività commerciali”. L’intervento complessivo, in un’area di 21mila mq compresa fra una zona agricola, un borgo e un’area industriale, è di circa 6000 mq costruiti, divisi in tre fasi realizzative, secondo le esigenze e il reperimento di finanziamenti.
Con l’emergenza Covid-19 si è aperto un dibattito su come cambieranno le case? Quali ricadute ci saranno nella sfera privata dopo questo particolare periodo?
Mi auguro che verrà spazzato via tutto il pensiero della “macchina abitativa”, che ha imperversato per un secolo, e ha determinato la miseria spaziale e umana delle nostre abitazioni di periferia.
Dopo queste settimane terribili avremo compreso, chi fortunosamente chi dolorosamente, l’importanza dello spazio della casa, della sua quantità e qualità, della luce, delle grandi aperture, degli spazi esterni privati e semipubblici, di diversi livelli di privacy e intimità, della commistione progettata e gestita del pubblico e del privato. Il nostro muoversi in casa ha come un vettore percettivo verso l’esterno, alla ricerca di luce e sguardi. La nostra vita è un grande e continuo respiro, alternativamente profondo, affannoso, lento, leggero, e tutti hanno diritto allo spazio del respiro, in quantità e qualità.
Come tradurre tutto questo in un progetto e poi portarlo in cantiere?
Le tecniche di costruzione oggi ci permettono di ampliare le dimensioni della casa, evitando costi non praticabili per la classe media: sono le normative che devono agevolarci e indirizzarci in questa direzione, anche forzando i committenti e calmierando i prezzi del mercato. Dovremo essere pronti e coraggiosi a sperimentare tecniche costruttive che permettano dimensioni grandi, non solo dignitose, a costi contenuti, sia nel nuovo che nel recupero.
Le istituzioni dovranno pretendere e permettere spazio fisico a costi praticabili, imporre davvero nelle stesse operazioni e territori urbani residenza privata e residenza sociale, finanziando e facilitando la progettazione. La “gentrificazione” è un’infamia non ineluttabile. La zonizzazione per classi è il nemico della socialità e della nostra città che da secoli viviamo e amiamo.
In questo momento, l’attenzione è concentrata su strutture e infrastrutture per l’emergenza. Si alternano proposte di soluzioni industrializzate, si convertono edifici con altri usi. Quale ruolo per l’architettura?
L’umiltà e il pensiero. A meno di professionalità e situazioni specifiche, il nostro ruolo oggi nel cuore dell’emergenza dovrebbe essere quello di avere rispetto per chi combatte in trincea, non essendo noi, nel nostro lavoro, direttamente in prima linea. Credo che questa difficile fase del presente dovrebbe aiutare tutti (non solo noi architetti) a capire la malattia profonda dell’individualismo come pratica collettiva: stare soli con noi stessi, con il nostro corpo, vedere o intravedere la sofferenza del mondo e la sua fragilità, sono prese di coscienza di come il rapporto con gli altri sia l’essenzialità dell’essere umano.
L’architettura è il luogo fisico e archetipico di incontro fra singolo e collettività, con un obiettivo di fusione di orizzonti. Dobbiamo tornare a capire che questa è la nostra missione: fondere gli orizzonti fra individui e comunità attraverso spazi che creino la felicità e il benessere delle persone; non il successo e la visibilità personale.
Parafrasando Albert Camus: l’architettura non fa le rivoluzioni, ma c’è un momento in cui le rivoluzioni hanno bisogno dell’architettura. Con umiltà e lavoro dobbiamo essere pronti per quel momento.
Passato il tempo critico, quale “dopo” possibile?
Credo che questa tragedia ci stia obbligando a sospendere l’assunzione della droga collettiva dell’idea di futuro tecnologico come rimozione del presente, avvicinandoci a noi stessi, alla corporeità, e all’umanità fisica e spirituale, proprio del presente che fuggiamo.
Gli ottimismi sulle splendide e progressiste sorti tecnologiche dell’umanità fanno oggi sorridere se pensiamo che il dramma per un Paese moderno di 60 milioni di abitanti è il non riuscire a recuperare o produrre mascherine che valgono pochi centesimi di euro e hanno un livello tecnologico vicino allo zero, o l’avere abbandonato i medici di base. Oltre ad avere svenduto la ricerca scientifica.
Ma la nostra cultura, italiana e mediterranea, nonostante l’invasione, anche quella virale, del capitalismo tecnologico puritano, ha mantenuto l’anima della socialità. Le nostre città, se non saranno ancora devastate da uno sviluppo esterofilo, provinciale nel linguaggio e draconiano nel classismo, potranno recuperare la scala del rapporto pubblico-privato, della commistione sociale e funzionale, dell’articolazione spaziale temperata e umana.
Cosa cambierà quindi nelle città?
Non è semplicemente scimmiottando lo skyline di Londra o Dubai o della periferia di Francoforte, che mettiamo in forma e in moto il nostro essere al centro del mondo. Perché noi siamo diversi. Per fortuna. E lo siamo nelle nostre città, oggi deserte, medie per dimensioni e umane per qualità degli spazi. La nostra “scala urbana” è la “scala umana”.
L’assoluta necessità economica di grandi investimenti pubblici, oltre a rinnovare le infrastrutture del Paese, dovrà andare nella direzione di finanziare il recupero delle nostre città nei tessuti storici e periferici e dei nostri piccoli centri di provincia, dove, grazie alla qualità ambientale e la vicinanza alle filiere produttive qualitative, molti dopo questa esperienza penseranno di tornare e andare a vivere o comunque a spendere molto del proprio tempo.
Vorrei che il mito metropolitano venisse temperato da un dialogo vero con i territori intorno alle città. Solo se conosciamo, rispettiamo e amiamo il mondo che ci è vicino possiamo dialogare a livello globale. Non è facendo diventare le nostre città “micromegalopoli” classiste nei fatti e nel linguaggio che diventeremo internazionali, non è facilitando la conquista da parte delle città di territori limitrofi non urbanizzati, ma antropizzati e magari agricoli, che risolveremo il problema urbano e umano: il nostro presente è “o-sceno” perché privo della scena teatrale e umana dell’incontro.
Serve un nuovo Rinascimento nel rapporto individuo-città-paesaggio, e come tale capace di esprimere anche nelle forme dell’architettura una Comunità.
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