È assodato che la tecnologia ha assunto un ruolo decisivo nella vita di tutti i giorni: con un tocco del nostro smartphone accediamo ad informazioni un tempo irraggiungibili, possiamo rimanere perennemente collegati con un’infinità di “amici” attraverso le mille applicazioni a disposizione e potremmo far fare cose alle nostre “case intelligenti”. Al di là delle nostre singole esigenze quotidiane, dalle più concrete alle più artefatte, è possibile progettare, governare, gestire una città? È possibile parlare davvero di smart cities? Qual è il rapporto fra tecnologia e ambiente urbano? Due articoli a firma di Giuseppe Salvaggiulo su La Stampa e di Carlo Ratti, architetto di Senseable City Lab, su La Repubblica propongono il loro punto di vista su questi interrogativi.
“Molti parlano di innovazione, big data, smart city. Ma i più non capiscono. Eppure sono cose concrete”. Salvaggiulo nel suo contributo del 21 marzo parla delle città intelligenti in Italia, che nella classifica europea delle prime 100 smart city, tra quelle fino a 500 mila abitanti, si classificano solo in quattro: Trento è la migliore al 45° posto, seguita da Trieste (49°), Ancona (51°) e Perugia (52°). Attraverso il Rapporto 2016 dell’Associazione Italiadecide “Italiadigitale: 8 tesi per l’innovazione e la crescita intelligente” il giornalista racconta di un ritardo in cui la digitalizzazione ha seguito un approccio settoriale interessando le sole informazioni del settore pubblico anziché pensare ad un sistema aperto. “Non basta più digitalizzare le informazioni della pubblica amministrazione trasmesse agli utenti. Questo approccio è superato. La digitalizzazione deve coinvolgere l’industria, la scuola, la società intera”. Si rende necessario, secondo il giornalista, uno choc per disarmare questo rallentamento culturale, ma il pubblico non è in grado di promuoverlo o governarlo vista la mancanza di fondi o la “lentezza” che caratterizza la sua governance. Per riuscire quindi a parlare di città intelligenti il Rapporto propone alcune azioni da attuare nell’immediato, fra le altre: creare un ministero ad hoc, incentivare le imprese semplificando le procedure urbanistiche e ambientali, utilizzare i big data nella revisione della spesa pubblica, formare una nuova generazione di dipendenti pubblici.
Alla presentazione del Rapporto alla Camera dei Deputati era presente anche Carlo Ratti che nel suo articolo su La Repubblica del 20 marzo scrive invece della centralità che assume oggi la “coralità” nella progettazione urbana. Ratti, progettista e docente al MIT di Boston, dove dirige un gruppo di ricerca che esplora la relazione fra nuove tecnologie e città (il Senseable City Lab), sostiene che oggi la rete propone “atteggiamenti partecipativi, incroci disciplinari, inaspettate collaborazioni capaci di affrontare la complessità del contemporaneo, con un approccio a volte duro e critico a volte propositivo. In altri termini, il singolo autore cede il passo al network”. Il mondo dell’informatica sta contagiando quello della progettazione promuovendo modalità di collaborazione open source fra architetti e ingegneri che si allarga a nuove discipline, clienti, utenti. I progettisti propongono così schemi liberi per la futura pratica degli users immaginando esperienze all’interno dell’ambiente urbano che si snoda fra il mondo fisico e quello immateriale delle nuove tecnologie. Per Carlo Ratti quindi nasce l’architetto corale, uno degli esempi è Alejandro Aravena, una figura che “dà inizio e fine all’iter di progetto. Che armonizza diversi contributi in modo collaborativo. Che stimola l’inclusione”.
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