In silenzio e con discrezione, l’occhio digitale della fotografa triestina Neva Gasparo ha indagato, registrato, analizzato, nell’arco di trenta lunghi anni, ogni respiro di Porto Vecchio, a Trieste, una superficie di 600.000 metri quadri di magazzini, moli, banchine, rimesse, officine, edifici e fabbriche abbandonate. Città nella città, affacciata sul mare, è un porto senza nome, chiamato “vecchio” rispetto a quello che lo avrebbe ben presto sostituito ma nato “franco” per la funzione che svolgeva all’origine.
Una denominazione che oggi sembra enfatizzare ancor più il silenzio che lo domina. Un luogo pieno di storie sopite, dimenticate o interrotte, un luogo abitato da silenti fantasmi che ne attraversano gli spazi ormai desolati e decadenti. Un luogo però pieno di segni e di bellezza che, proprio tra le crepe dei suoi muri e dalle fessure dei suoi tetti, fa emergere anche una promessa per il futuro. Perché questo Trieste lo sa da oltre 40 anni.
La sua rinascita o rilancio parte da qui e se ancora non si è trovata la formula che permette di riconnettere questa meravigliosa cattedrale del lavoro al resto di quella città che lambisce per centinaia di metri, non si è mai smesso, in questi lunghi anni, di ricominciare da qui. Ed è proprio questa consapevolezza che ha spinto Neva Gasparo ad attraversare questi spazi – pieni e vuoti, desolati e ricchi – in ogni stagione, con ogni condizione meteorologica, per registrarne il respiro, i colpi di tosse, i sussulti. Non solo quindi per verificarne il degrado che il tempo deposita sui manufatti, sui tetti squarciati e sui rovi ma per mettere in risalto ciò che Porto Vecchio è nella sua essenza più intima: una finestra aperta su un mare di possibilità.
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