Forse il motivo principale che mi spinse a tornare in Italia nel 2000, dopo 30 anni di assenza - durante i quali da Londra lavorai in diverse parti del mondo - fu il desiderio profondo di fare qualcosa per il mio Paese, dando un contributo, per quanto possibile, per migliorare la professione dell’ingegnere la cui missione, io credo, sia quella di ‘costruire’ un mondo migliore.
Con non poche difficoltà decisi di lasciare Londra per creare dal nulla, a Milano, la sede dello Studio Arup in Italia, organizzando un 'Design Office' di primo ordine. Gradatamente lo riempii di brillanti giovani italiani, specialisti in diverse discipline dell’ingegneria e accomunati tutti da una filosofia progettuale che non si contenta dell’ovvio ma mira alla eccellenza creativa. Simultaneamente, nel corso degli anni, ho girato l'Italia parlando a congressi e tenendo molte lezioni in varie Università 'predicando come un missionario' la filosofia della progettazione multi-disciplinare integrata che oggi rappresenta forse la via più appropriata per creare sia il bello che il bene in un mondo sempre più difficile.
In realtà, nel corso di quasi 15 anni dal mio ‘rientro’, ho assistito ad un graduale degrado culturale generale che sembra inarrestabile, e che si manifesta anche nella professione dell’ingegnere costruttore del bello. E questo, ironicamente, non per mancanza di intelligenza degli individui, ma piuttosto per rassegnata fatalità a causa della mancanza di ideali capaci di fare sperare in un futuro migliore. Troppo spesso nel nostro settore ho notato una assenza sistematica di idee innovatrici, di forza creativa o di esplorazione fuori dagli schemi usuali, cose queste che dovrebbero essere il contributo tipico ed il valore aggiunto dell'ingegnere che si prefigge di costruire appunto un mondo migliore.
Paradossalmente questo degrado è alimentato anche dal progresso informatico, che come tutti i progressi è in sé una buona cosa perché foriero di cambiamenti, ma come tutti i cambiamenti porta sempre con sé anche dei lati negativi. Troppo spesso, al momento, sembra che si resti affascinati prevalentemente ai lati negativi del progresso.
Nel settore delle costruzioni un esempio tipico al riguardo è la potenza raggiunta dai nostri computer e dai ‘software’ che incoraggiano soprattutto gli architetti meno dotati (e ce ne sono molti!) a proporre sempre più spesso forme a dir poco strane o bizzarre, confondendo queste 'stranezze', di difficile realizzazione costruttiva e costose, con ‘creatività’.
Sembra anche, troppo spesso, che gli ingegneri italiani abbiano rinunciato volontariamente e con rassegnazione, al lato creativo del loro mestiere, ‘perdendosi’ ciecamente e senza approccio critico ai problemi in esame, dietro programmi informatici di calcolo che soddisfino requisiti di Norme generali, trasformandosi così, essi stessi, in 'numerai' piuttosto che orgogliosamente proclamarsi 'progettisti creativi' senza il cui contributo le soluzioni sarebbero state banali o poco eleganti né tantomeno belle.
Questo processo 'non creativo' sembra essere incoraggiato anche dai corsi universitari di ingegneria che trascurano il 'design', cioè il lato più affascinante dell’ingegneria, a favore di 'calcoli' e di applicazioni rigide ed a-critiche di Norme burocratiche generali.
È ovvio che in ogni Paese civile devono esserci ‘regole e codici’ per guidare le professioni su un sentiero di correttezza, sicurezza e qualità. Ma è altrettanto ovvio che se lo sguardo dell’ingegnere si ferma solo su quanto scritto nelle Norme per le costruzioni ‘normali’, ci si avvierà su un sentiero che porterà fatalmente alla fine della ricerca e della invenzione innovativa. È comune in Italia la lamentela degli architetti che ad ogni tentativo di sensata innovazione hanno come risposta dall’ingegnere italiano che ‘non si può fare perché le Norme non lo consentono’!
Ci si dimentica così, comodamente, che tutte le Norme tecniche dei Paesi avanzati prevedono sempre aperture a soluzioni più sofisticate, a sperimentazione ed innovazione al di là di quanto regolato per le applicazioni ‘normali’.
L’ingegnere deve essere, per sua forma mentale e per istruzione, un progettista creativo perché ha il privilegio unico di trovarsi nella condizione ideale non solo di immaginare soluzioni nuove ed insolite, ma di sapere anche come analizzarle, ottimizzarle ed allo stesso tempo sperimentarle se insolite.
Bisogna forse ricordare a tutti gli ingegneri italiani che una verifica rigida con i codici del passato e tanto più con quelli attuali, avrebbe condannato la quasi totalità delle insolite e magnifiche opere di P.L. Nervi, e avrebbe quindi privato il nostro patrimonio architettonico di molti capolavori.
Allora, cosa bisognerebbe fare per migliorare creatività, figura e prestigio dell’ingegnere italiano?
Il quesito è difficile e molto complesso, come complesse sono le stratificazioni degli eventi culturali e sociali che hanno portato a questo offuscamento della figura dell’ingegnere.
Forse sarebbe utile, per cominciare, osservare ed imparare umilmente quello che fanno altri professionisti. Per restare nel settore delle costruzioni, vale forse la pena di chiedersi se gli architetti siano stati più 'furbi' o più intelligenti degli ingegneri.
Tanto per iniziare, è importante notare come, anche attraverso i media, gli architetti abbiano imparato a parlare al popolo in generale oltre che ai loro clienti, posizionando il loro contributo e la loro professione fuori dalla cerchia ristretta e limitativa del loro Ordine professionale. Così facendo hanno creato, sia pure con critiche, una notevole immagine di se stessi e del loro lavoro. Infatti hanno divulgato, e continuano a divulgare in ogni modo e meglio che gli ingegneri, la loro professione, al punto di eclissare spesso completamente il contributo degli ingegneri e dei vari specialisti, che rimangono perciò 'personaggi invisibili’, anzi spesso ‘fastidiosi o negativi’ sia per l'architetto che per il cliente.
Con la perdita di visibilità i professionisti non-architetti, cioè gli ingegneri e altri specialisti, pur essenziali al successo dell’opera, non essendo considerati altrettanto, non vengono retribuiti in modo adeguato. Infatti, perché pagarli adeguatamente se fanno solo numeri, o meglio se ‘vendono’ solo numeri che sono, in verità, prodotti da computer per soddisfare Norme o Codici, senza apportare alcun contributo veramente creativo all’immagine del progetto o alla filosofia del cliente?
Ulteriore esempio di ‘marketing’ di immagine progettuale è il fatto che oggi, anche per tematiche tipicamente 'ingegneristiche' quali, per esempio, la progettazione di ponti, ferrovie, grattacieli e simili - dove il contributo dell’ingegneria è di fatto sostanziale e predominante - si vedono sempre più partecipare a gare e concorsi, come attori principali, studi di architetti che si servono poi di ingegneri in secondo piano come consulenti, spesso invisibili alla comunità, nonostante che senza il loro contributo quelle opere sarebbero irrealizzabili.
È forse necessario per la rinascita della figura dell’ingegnere far sapere a tutti con orgoglio che un ponte o un grattacielo si può fare benissimo senza un architetto ma che sarebbe impossibile farlo senza un ingegnere? E se questo è vero, come mai la figura dell’ingegnere è quasi sempre offuscata?
Bisogna far risorgere nella coscienza generale la importanza del contributo creativo ed innovativo dell’ingegneria per il progresso mondiale. Ma il risorgere del prestigio dell’ingegnere come figura creativa essenziale nella Comunità va accompagnato da una nuova visione filosofica di base che fermenti sia l’Accademia che i vari Ordini professionali. Questi ultimi, oltre quello che già fanno, devono costantemente ‘alzare lo sguardo’ esigendo principalmente dai loro menbri qualità ed eccellenza professionale e comunicando in modi nuovi sia con le Università che con le industrie e le organizzazioni pubbliche la missione delle ingegnerie e le conquiste ad esse dovute, senza le quali non ci sarebbe vita o civiltà.
Bisogna capire che il dialogo con l’esterno è altrettanto importante di quello interno, se non di più. I problemi relativi all’Accademia ingegneristica non sono meno gravi. Bisogna divulgare in modo appropriato le motivazioni che incoraggino i giovani a scegliere come futuro gratificante gli studi di ingegneria. Bisogna anche creare nuovi tipi di corsi universitari che diano enfasi a percorsi di ingegneria creativa e sperimentale. L’Accademia ingegneristica italiana sembra essere molto bene agguerrita nel settore teorico e analitico quanto seriamente manchevole in quello creativo e progettuale.
Molte possono essere le definizioni che si possono associare alla figura e all’operato dell’ingegnere, ma quella di ‘solutore di problemi’ certamente non deve essere la più ambita. Anzi, credo sia la più diminutiva, specie oggi, quando le difficoltà numeriche vengono risolte con l’uso di computer.
I grandi e geniali ingegneri innovatori italiani del dopo guerra non hanno lasciato eredi. C’è ora il rischio, forse già in atto, di inoltrarsi in un tunnel di anonimità ingegneristica.
Se non si esce da questo tunnel vedremo il graduale allontanamento dei giovani da quella che è stata una delle più antiche e gloriose professioni dell’umanità. Perché mai, infatti, i giovani dovrebbero scegliere una carriera in ingegneria se poi tutto quello che fanno non viene riconosciuto adeguatamente sia come appagamento professionalmente che in termini di retribuzione?
È sulla base di queste riflessioni che mi spingono a parlare di ‘razza in estinzione’. Affinché questo non avvenga bisogna creare nuove scuole di ingegneria, con nuovi ideali e paradigmi, dove la progettazione e la creatività innovativa venga premiata ed incoraggiata almeno con la stessa attenzione dedicata oggi all’analisi matematica, e dove la sperimentazione e la ricerca diventi l’obiettivo comune di qualifica professionale. Bisogna insistere affinché già dalle università si affrontino corsi di progettazione in modo multi-disciplinare ed integrato, dove tutti i componenti del team hanno eguale peso di partecipazione creativa. Bisogna infine obbligare gli enti pubblici a indire sempre gare e concorsi con la partecipazione obbligatoria di team multi-disciplinari come l’unico strumento adatto a risolvere le molte complessità della società in cui operiamo.
Questi sono i semi che i nostri Ordini dovrebbero innestare nelle Università e negli apparati pubblici affinché la professione di ‘progettista di ingegnerie’ fiorisca evitando la estinzione.
Tutti gli articoli di Gabriele Del Mese nella sezione Le Ingegnerie di PPAN
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