«Il mio non è un libro sul futuro, è un libro sul diverso presente. È una cosmogonia, una cosmografia se volete, che vuole raccontare, tracciare, condividere una visione del mondo». Descrive così il suo nuovo libro Futuro. Politiche per un diverso presente, recentemente uscito per i tipi di Rubbettino, Maurizio Carta – architetto, già assessore all’urbanistica e professore ordinario di Urbanistica all’Università di Palermo, oggi tra i motori nella piattaforma D.O.P.O. per il futuro post-Covid19 – in un dialogo con gli architetti e colleghi Gianluca Peluffo e Paolo Di Nardo per il ciclo di incontri Rigenerare a Sud | Rigenerare il Sud dell’Università della Basilicata.
E nonostante la negazione del titolo, Futuro è in realtà un libro che ad esso è dedicato, ma non nel senso comune della parola. Non si tratta infatti di una ricerca che vuole fare previsioni o azzardare soluzioni, ma un volume scritto con l’intento di rovesciare i paradigmi del presente, affinché l’umanità possa essere artefice di diverso futuro. In questo senso è soprattutto un testo politico, inteso come attività di cambiamento e di trasformazione, profondamente legato al concetto di future design, in altre parole a quella «costruzione del futuro come esito consapevole delle nostre azioni collettive capaci di modificare il presente che non ci piace poiché produrrebbe il futuro che non vogliamo». «Sono convinto che l’architettura sia politica – continua Carta – e che l’urbanistica sia la più politica delle sue declinazioni, perché essa ha il privilegio – e il dovere – di dare forma ai desideri della società».
Un rimando forte all’idea di politica di Hannah Arendt, secondo la quale questa non nasce nello spazio domestico, ma in quello urbano, tra le persone, e che oggi indissolubilmente si lega anche alla condizione del nostro presente durante la pandemia, confinati nelle nostre case, luoghi sicuri da una parte, ma anche profondamente «anti-urbani» dall'altra. Il future design, in questo senso, coinvolgerà architetti, progettisti, professori, educatori, cittadini impegnati e dovrà dare vita anche una nuova visione della nostra condizione di essere umani, anche urbana. Le nostre città andranno perciò ripensate, ripianificate, rimmaginate, governate da una “buona amministrazione” del bene pubblico e dei beni comuni. Un’idea che trova eco anche nelle parole di Paolo Di Nardo, quando afferma che c’è bisogno di una «rivoluzione», di una riappropriazione degli spazi pubblici da parte dei cittadini. E che potrà e dovrà ripartire dal Sud, dal Mezzogiorno, e da una rinnovata alleanza tra i paesi del Mediterraneo. Un ruolo centrale dell’Italia e del meridione che però, come ricorda Carta con una calzante metafora, si dimostrerà tale solo se «saremo in grado di mettere a frutto la nostra capacità di passare dal tango al ballo di piazza. Non dovrà essere l’algoritmo a guidarci, ma l’umanità».
Ma è Gianluca Peluffo a riportare al centro della discussione la dimensione politica dell’architettura come quella «connessione politica tra individui e collettività» e antidoto alla «distrazione di massa di un presente anestetico» al quale ci siamo oramai assuefatti, perdendo il senso dell’estetica e del bello. Se quindi, ha continuato, il concetto di “diverso presente” proposta da Carta «è un’idea di progettualità reale e attiva, allora possiamo parlare di futuro». Ed è in questo spazio politico preciso, tra gli uomini (per tornare ad Hannah Arendt) che Peluffo ritrova il ruolo centrale del progettista, dell’architetto, ma anche del medico e dell’insegnante, «figure di connessione necessaria, elementi trasformatori. Trasformiamo le conoscenze e le traduciamo in sistema di conoscenza e di azione sul territorio».
Demiurghi di un nuovo futuro? Forse, ma sicuramente artefici del nuovo futuro nell’era del Neoantropocene, che si contrapporrà alla corrente epoca dell’Antropocene, caratterizzata da un sistema economico iniquo e dallo sfruttamento della natura da parte dell'uomo (e qui sembra entrare fortemente in gioco l’idea di ecologia integrale di cui parla papa Francesco nella Laudato si’) ai quali sono intrinsecamente legate tre crisi: «ambientale, economica e identitaria». Il Neoantropocene non sarà quindi altro che «un nuovo Antropocene in cui l’umanità invece di essere il problema progetta e mette in atto la transizione verso lo sviluppo sostenibile, riattivando l’antica alleanza tra componenti umane e naturali come forze coagenti: un antropocentrismo sensibile, rispettoso e temperato volto a riposizionare l’umanità in uno schema integrato, ibrido, con la natura».
Un diverso presente che dovrà dare vita ad un nuovo modello di economia, di politica, di urbanistica ma soprattutto di coinvolgimento civico, nel quale gli uomini, se non vorranno fare parte «di quella metà di umanità che scomparirà nella sesta estinzione» dovranno contribuire a progettare, abbandonando la “mediocrazia” per tornare a una vera democrazia, vivendo in quella che Peluffo definisce l’«invincibile estate» di Albert Camus. Un processo necessario anche per progettare il domani post-pandemia.
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